L'amore profuma di caffè

Un piccolo racconto che scrissi qualche anno fa. Fatemi sapere cosa ne pensate, se lo leggete!


Ero seduto al mio solito tavolo, quello all’aperto, dove sedevo quando arrivava la primavera. Mi piaceva perché da lì riuscivo a vedere la strada, le persone. Mi sentivo come il padrone del mondo.

E poi riuscivo a vedere lui, che si faceva strada fra i tavoli per servire i clienti.

Era mattina presto. Mi svegliavo apposta alle sei per andare alla caffetteria dove lavorava, fare lì colazione con il solo scopo di vederlo prima che andasse a scuola.

Il suo nome era Giacomo. Aveva i capelli corvini, gli occhi color smeraldo e la carnagione chiara. Le poche lentiggini sul viso erano accostate l’una all’altra come se fossero in un piccolo cielo e loro erano le stelle... E profumava di caffè. Forse dovuto al fatto che lavorava in quella caffetteria.

L’avevo conosciuto l’anno scorso, ad una mostra di fotografia degli alunni dell’istituto d’arte. Non mi era mai interessata molto, ma era un’uscita guidata con la scuola alla quale tutti dovevano partecipare.
Appena arrivammo in quella grande sala bianca piena zeppa di gigantografie in bianco e nero nelle quali c’erano i soggetti più svariati: dal bambino che gioca con l’aquilone, ai musicisti di strada, fino ad arrivare al nudo artistico, ai quali, ovviamente, i ragazzi facevano commenti sessuali; rimasi affascinato dal modo in cui il fotografo riuscisse ad imprigionare l’anima di quell’esatto momento, e a trasmetterla a chi guardava la fotografia. Volli scoprire chi fosse l’artefice di quelle meraviglie. E lo incontrai. Il ragazzo più bello che avessi mai visto. Vedendomi così appassionato alle sue opere e alla fotografia, ci demmo appuntamento all’indomani per parlare di fotografia. O almeno, lui avrebbe parlato, io sarei rimasto ad ascoltare.

Ci sedemmo alla caffetteria dove poi avrebbe lavorato, quel bar dove c’era sempre un forte profumo di caffè appena fatto. Eravamo al tavolo dove ero seduto io ora. Ordinammo due caffè, lui forte, io macchiato con tanto latte. Era una mattina fresca di primavera, nell’aria c’era profumo di caffè, e le persone correvano per non arrivare tardi al lavoro, o forse proprio perché lo erano.

Giacomo era davanti a me e aveva iniziato a parlare a ruota libera di esposizione, diaframma, risoluzione, profondità di campo... Era così affascinante. I suoi occhi erano così luminosi, segno che, faceva capire quanto amasse la fotografia.
Io rimanevo in silenzio, ascoltando ogni minimo suono fuoriuscire dalle sue sottili labbra, le quali si muovevano in modo così armonioso, come se stessero danzando al ritmo di una melodia che solo io udivo.
Continuavo a guardarlo affascinato come quando un bambino vede per la prima volta il mondo esterno.

Mi innamorai di lui una quella mattina di primavera, in questo stesso bar. Lui non sapeva nulla, ovviamente. Gli anni ’60 erano difficili per noi “diversi”.

E in quel momento arrivò Giacomo.

− Ciao Alessandro! Il solito?

− Sì, grazie. –

Sorrisi.

− Arrivo subito − disse con quel suo sorriso impacciato.

− Ecco a te. Sono cinquanta lire. –

− Tieni − dissi con semplicità. Non volevo sembrare troppo felice nel vederlo. Non volevo che sospettasse nulla.

− Allora, stai facendo progressi con la macchina fotografica che ti ho regalato? − mi chiese.

Mi regalò una Ferrania Galileo Condor II, una delle migliori macchine fotografiche in circolazione.
Si presentò un giorno, durante le nostre ormai solite uscite in cui mi insegnava la fotografia, con quella sua meravigliosa macchina fotografica che teneva sempre al collo. Andammo in Piazza Maggiore, per poter far pratica con la macchina. Disse che ero portato per la fotografia, e che imparavo molto in fretta.

− Vorrei la tenessi tu − mi disse.

− Che cosa? No, non posso, è preziosa per te − risposi imbarazzato.

− È vero, lo è, ma so che tu la terrai altrettanto bene. Mi fido di te. − Sorrise.

− Io... non... non so cosa dire... Grazie − balbettai.

I mesi passarono, e giugno arrivò in fretta. Io e Giacomo non ci vedevamo più tanto spesso, per via delle prove d’esame che avrebbe dovuto affrontare da lì a poco. Io aspettavo con ansia le vacanze estive, nella speranza che saremmo stati insieme il più possibile.

Andavo a trovarlo in caffetteria ogni volta che potevo, e a volte nemmeno si accorgeva di me.
Tre giorni dopo partì.

Passò un anno. Io fui promosso e mi iscrissi a medicina. Di Giacomo non avevo mai avuto notizia.
Ricevetti una lettera dalla fidanzata di Giacomo, Lidia, qualche giorno più tardi. Profumava di caffè.
Giacomo era morto di ipotermia per salvare una bambina che stava affogando nel Tamigi.

Strinsi la lettera nelle mani, mentre le lacrime cominciavano a scendere nel viso.

Abbandonai l’università. Non mi importava più di nulla.

Partii per Londra il giorno stesso. Appena arrivai incontrai Lidia che mi disse che doveva parlarmi.

Ci sedemmo in una caffetteria, ma l’odore di caffè non era il suo. Era scomparso insieme a lui.

− Lui ti amava − cominciò.

− Ma di che stai parlando?

− Non fare l’ingenuo, so che anche tu lo amavi. Vi vedevo insieme. Era felice. Non sorrideva mai così con me.

− Io...

− Non devi darmi spiegazioni. Ti ho portato qui solo per dirti che vorrei che tu prendessi in mano il suo studio fotografico. Avrebbe voluto così. Mi parlava sempre del tuo talento. Beh, parlava sempre di te... −

Ero sulla riva del Tamigi. Mi fermai a guardarlo. Quell’immensa massa color turchese sbiadito mi aspettava con le braccia spalancate, e non vedevo l’ora di farmi avvolgere da quell’abbraccio gigante e freddo. Scendere giù, dolcemente, dove la luce del sole arrivava impacciata. Laggiù, dove da qualche parte mi aspettava Giacomo...

− … Libera! − urlò un medico.

− Non c’è più niente da fare, dottore. L‘abbiamo perso. − rispose mestamente un'infermiera.

Sentivo il suo odore, l’odore dell’amore: di caffè.

− Ale, mi senti? Sono Giacomo.

− Sì.